L’analisi dei dati sulla mobilità sanitaria interregionale e sulla qualità dei servizi rivela un Paese segnato da profonde disuguaglianze nella capacità di assicurare il diritto alla salute: a farne le spese i cittadini del Mezzogiorno
C’è una migrazione silenziosa – che non è considerata strumento di consenso politico e raramente desta l’interesse dei mezzi di informazione di massa – che ogni anno attraversa la nostra penisola. È il flusso di cittadini costretti a spostarsi dal proprio luogo di residenza per ricevere cure adeguate. La gravità del fenomeno, però, ormai è tale da non poter più essere ignorata. Gli ultimi dati disponibili relativi al 2016 parlano infatti di poco meno di un milione di “migranti della salute”, per una spesa di circa 4,6 miliardi di euro.
Per comprendere ragioni, direzione e percorsi di questo esodo, si può distinguere su base regionale tra mobilità passiva e mobilità attiva. La prima definizione fa riferimento alla percentuale di pazienti che escono dalla propria area di residenza per curarsi in un’altra regione, mentre la seconda alla capacità di un sistema sanitario di attrarre cittadini da altri territori regionali. Se si analizzano le differenze regionali tra ricoveri “in entrata” e “in uscita”, si nota che il saldo è positivo solo per otto regioni e negativo per tutte le altre.
Le prime tre posizioni sono occupate da Emilia-Romagna, con un saldo pari + 9%, Toscana (+ 7,5%) e Lombardia (+7,2%), mentre le ultime tre da Calabria con una differenza del -20%, Basilicata (-6,8%) e Abruzzo (-6,4%). Lo spostamento tra territori regionali limitrofi (o mobilità di confine), però, deve essere valutato diversamente rispetto alla mobilità di lungo raggio, cioè il vero e proprio viaggio della speranza di coloro i quali percorrono tutta la penisola per curarsi.
A questo proposito, i dati evidenziano due diverse tendenze rispetto ai luoghi di destinazione per le cure. Le prestazioni sanitarie in mobilità passiva dei pazienti centro-settentrionali vengono erogate principalmente nelle regioni confinanti. Ma lo stesso non vale per i cittadini meridionali, costretti a percorrere molti chilometri per curarsi principalmente in Lombardia, Emilia Romagna e Lazio.
Chi ci guadagna è il privato
Dal 2013 a oggi, la dimensione economica del fenomeno è cresciuta costantemente, passando dai 3,9 miliardi di euro ai 4,6 attuali, ma con una riduzione del 3% dei ricoveri in strutture pubbliche e un aumento dell’11% di quelli presso i privati. La maggior parte dei sistemi di accreditamento regionali, infatti, impone un tetto alle prestazioni che i privati accreditati possono erogare ai residenti, ma non a quelle per i non residenti. I presidi privati sono, pertanto, fortemente motivati ad attrarre pazienti dalle altre regioni e le prestazioni erogate ai residenti sono per il 75% a carattere pubblico, mentre quelle in mobilità lo sono solo al 50%.
Da una prima analisi della mobilità sanitaria emerge, dunque, sia una forte disparità tra i cittadini settentrionali e quelli meridionali per quanto riguarda la dimensione e la direzione del fenomeno, che un aumento della spesa per privati accreditati.
La mappa delle disuguaglianze
Le statistiche sulla mobilità interregionale, però, monitorano esclusivamente i ricoveri ospedalieri, cioè solo un ambito specifico tra i vari che appartengono al Servizio Sanitario Nazionale (SSN), e non danno conto di servizi “ordinari” quali la prevenzione, l’assistenza specialistica ambulatoriale, quella domiciliare e residenziale. Moltissimi sono gli indicatori che rilevano lo status della sanità pubblica e la qualità della vita che ne deriva. Per avere misura del divario tra i sistemi sanitari regionali e delle ragioni che spingono alcuni cittadini a spostarsi, è sufficiente qui scegliere pochi indicatori significativi, quali la speranza di vita, il tasso di mortalità prematura, la diffusione degli screening di primo livello e la percentuale di pazienti con una rottura del femore operati entro due giorni.
I dati del Ministero della Salute sul monitoraggio dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), così come studi indipendenti quali i Rapporti di Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato e quelli dell’Osservatorio sulla Salute delle Regioni Italiane dell’Università Cattolica, descrivono condizioni di salute e livelli dei servizi sanitari estremamente disomogenei.
In particolare, secondo l’Osservatorio, l’aspettativa di vita alla nascita è in media più alta nelle regioni del nord-est (81,2 anni per gli uomini, 85,6 per le donne) e minore nel Mezzogiorno (79,8 per gli uomini, 84,1 per le donne). Inoltre, tra il 2005 e il 2016, in Campania, Calabria e Sicilia si osserva una dinamica regressiva, ovvero una riduzione della speranza di vita.
Lo stesso può dirsi per il tasso di mortalità prematura – quella cioè che può essere evitata attraverso strumenti sanitari idonei – che si assesta sopra la media nazionale in Campania, Sicilia, Sardegna, Lazio, Piemonte e Friuli, regioni nelle quali il tasso cresce tra il 2004 e il 2013.
Inoltre, sulla base dei dati forniti dal Ministero della Salute relativi al 2015, se nell’Italia settentrionale in media poco meno di 12 cittadini su 100 hanno accesso ai programmi di screening di base; nel centro sono circa 10 e nel meridione circa si scende a 4,5.
Le percentuali di pazienti con rottura del femore operati entro due giorni, sempre nel 2015, comprovano queste dinamiche. Nelle regioni settentrionali, infatti, il tasso di pazienti presi in carico in tempi adeguati è del 70% circa, in quelle centrali del 58%, in quelle meridionali del 38%.
Una “questione meridionale”
Si conferma, dunque, il sussistere di una “questione meridionale” anche in ambito sanitario, che ha origine, o quanto meno che assume un rilievo crescente, nel processo di regionalizzazione del SSN. Questo processo, in estrema sintesi, ha avuto inizio con i tentativi di riorganizzazione del 1992/93 fino ad arrivare alla riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, che stabilisce che la tutela della salute è materia a legislazione concorrente.
Allo stato centrale, invece, rimane la potestà esclusiva nella definizione, appunto, dei LEA che dovrebbero essere “garantititi su tutto il territorio” e che hanno l’obiettivo di assicurare l’unitarietà del sistema sanitario. Il grande squilibrio tra nord e sud, invece, rende difficile parlare di un unico sistema sanitario nazionale e mette in discussione uno dei principi fondativi stabiliti dalla legge istitutiva del 1978, “l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio”.
Infatti, da un lato, i pazienti meridionali sono costretti a muoversi verso quelle regioni che garantiscono migliori cure, ma dall’altro solo quei cittadini le cui condizioni economiche e lavorative lo consentono e che hanno accesso alle informazioni necessarie, possono farlo. “La mobilità interregionale è un elemento di equità tra i territori, ma non di equità socio-economica: i costi delle trasferte sono sostenibili solo da pazienti benestanti.”
Il nodo delle risorse
A tutto ciò, occorre aggiungere ancora due elementi determinanti nell’aggravare il divario nord-sud. Tra le otto regioni sottoposte a piani di rientro in ambito sanitario – cioè a vincoli di spesa legati alla necessità di ristabilire un equilibrio economico e finanziario – quattro sono meridionali: Campania, Calabria, Sicilia, Puglia.
I piani di rientro sono una delle conseguenze degli impegni europei assunti con la ratifica del Patto di stabilità, crescita e sviluppo sulla riduzione del debito in rapporto al Pil, per cui si prevede una responsabilità anche delle regioni nella diminuzione della spesa. Si è visto che le regioni in piano di rientro hanno nel corso del tempo parzialmente migliorato i propri conti, ma hanno gravi difficoltà a mantenere adeguati LEA4.
Infine, le regioni del sud si trovano a dover pagare sia i costi delle proprie inefficienze, sia a dover rimborsare le prestazioni sanitarie dei residenti che si spostano per curarsi, a tutto vantaggio delle regioni del nord. Il saldo tra la mobilità attiva e quella passiva, infatti, rappresenta uno degli elementi di calcolo per la ripartizione del Fondo Sanitario Nazionale.
Prendendo i più recenti dati disponibili, è chiaro che i 4,6 miliardi della mobilità interregionale costituiscono una percentuale esigua rispetto ai circa 110 miliardi che dovrebbero costituire il Fondo sanitario del 2018, ma risultano allo stesso tempo determinanti per bilanci sanitari in difficoltà.
Nel 2018 solo 7 regioni – tutte del nord e centro, fatta eccezione per il Molise – hanno un saldo positivo, con in prima posizione la Lombardia con un credito di 808 milioni di euro, seguita dall’Emilia-Romagna con 358 milioni, dal Veneto con 161 e dalla Toscana con 148. Le regioni con i debiti più importanti sono la Calabria con 319 milioni, la Campania con 302, il Lazio con 289 e la Sicilia con 239.
Agire con urgenza
Il diritto alla libertà di scelta del luogo di cura rivela aspetti inquietanti nel momento in cui alcuni cittadini, che non trovano nel proprio territorio di riferimento servizi sanitari di qualità, lo esercitano come spostamento “coatto”.
D’altro canto, la mobilità sanitaria nasce da una disparità, che allo stesso tempo contribuisce significativamente a esasperare e si traduce in un ulteriore spostamento verso fornitori privati. La disomogeneità tra i servizi sanitari dell’Italia settentrionale e quelli meridionali rischia di divenire, secondo Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, non più reversibile.
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad alcune iniziative di sensibilizzazione sul tema e tentativi di riforma. L’iniziativa più recente è la campagna La salute è uguale per tutti, avviata da Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato, per promuovere una riforma che intervenga sull’art. 117 della Costituzione, vincolandolo al rispetto per l’individuo e al principio di sussidiarietà verticale (inteso in modo meno restrittivo e più solidaristico).
L’idea è che lo stato centrale debba sostenere o sostituirsi alle istituzioni più vicine ai cittadini nei casi in cui la sua azione si rivela necessaria per garantire i diritti fondamentali. La proposta ha raccolto l’adesione di associazioni di settore, esperti a vario titolo, ma anche di molti esponenti delle diverse forze politiche, alcuni dei quali membri di rilievo dell’attuale governo. È auspicabile che questo consenso si trasformi in provvedimenti politici in grado di affrontare la situazione descritta con l’attenzione e l’urgenza che questa richiederebbe.
Manuela Mariotti
13 giugno 2018 – Tratto da Sbilanciamoci.info